Arte/Mostre

I colori proibiti di Evola

I colori proibiti di Evola

Ci voleva uno spirito libero e spregiudicato come Vittorio Sgarbi per ospitare al Mart di Rovereto fino a settembre una gran bella mostra sull’autore più proibito d’Italia: Julius Evola.

Una mostra in sordina, intitolata Lo spirituale nell’arte e dedicata al suo breve ma fertile periodo di pittore che chiuse cento anni fa quando non aveva 24 anni. Oggi ricorre l’anniversario della sua morte, nel 1974 e ancora ricordo i torvi e scarni trafiletti usciti sui giornali del tempo, dove veniva definito il Barone Nero, l’ideologo dell’eversione nera. Nessun necrologio che ricordasse la sua varia e possente opera di pittore, pensatore, autore. Andavo al liceo, mi ero innamorato delle sue opere che stavo leggendo sistematicamente e ritenni assurdo che un autore ai miei occhi cruciale dovesse essere sbrigato con poche righe infami, magari nelle pagine di cronaca giudiziaria piuttosto che nella cultura. Mezzo secolo dopo l’interdetto non è mutato, anzi.

Il cammino di Evola può essere scandito in cinque fasi, progressivamente “reazionarie” e scandalose, secondo il pregiudizio corrente. In principio fu il ragazzo pittore, ancora combattente nella prima guerra mondiale, e la sua pittura astratta, futurista in origine e approdata al dadaismo, da Balla a Kandiskiy, espressa anche in scritti e poemi. Poi venne l’Evola filosofo, in cui teorizzò l’Idealismo Magico e l’Individuo Assoluto, una specie di Superuomo trascendentale, che destò l’interesse di molti filosofi, compreso Benedetto Croce che gli aprì le porte dell’editore Laterza. Quindi abbandonò, non ancora trentenne, la filosofia ed emerse l’Evola occulto, che studiò e praticò l’esoterismo, la tradizione ermetica e la magia, espressione di una spiritualità orientale e pagana rispetto al cristianesimo. Poi venne il pensatore della Tradizione, con la T maiuscola, che riportava nei cieli della Metafisica la morfologia delle civiltà di Oswald Spengler (da lui tradotto) e contrapponeva la Civiltà dell’Essere alla moderna civiltà del divenire. Quindi affiorava il pensatore metapolitico, che si occupò criticamente del Novecento, della sua storia, delle sue idee e dei suoi costumi nell’ambito di una cultura aristocratica “di destra”. E nelle pieghe dell’epoca, affiorò per breve tempo, anche l’Evola più infelice, teorico del razzismo spirituale; prima fautore di un superfascismo sconfinato nel dissenso; e poi la prima organica critica al fascismo visto da destra. Nel mezzo tradusse opere fondamentali, fondò riviste, gruppi esoterici, ebbe esperienze di magia e d’alpinismo. Nel suo variegato cammino dall’Autarca alla Tradizione, dalla Libertà Assoluta all’Essere, dal nichilismo attivo allo spiritualismo magico, Evola si oppose al nazionalismo, al populismo demagogico e tribunizio e alla deriva cristiano-borghese. Se il tradizionalismo popolare si esprime nella triade di Dio, patria e famiglia, Evola non ebbe un Dio, né una patria né una famiglia. Su Evola ho scritto tanto, a partire dalla tesi di laurea in filosofia su di lui, che però segnò il congedo da lui, perché si trattò di una tesi non apologetica ma critica sulla sua filosofia e sulla contraddizione tra il pensiero e la Tradizione.

Di tutto quel suo scrivere e pensare, la prefigurazione fu nella sua opera pittorica. Evola fu il principale dadaista in Italia. Esperienza chiusa nel ’21/22 e ripresa quasi quarant’anni, dopo sulle tracce di quel periodo.

Viva e possente, nelle forme e nei colori, nei paesaggi interiori e nelle parole oscure che si fanno poi cromaticamente smaglianti è la sua opera pittorica, nel catalogo a cura di Beatrice Avanzi e Giorgio Calcara, più un contributo di Andrea Pautasso. Poche opere rimaste, che destarono al tempo l’attenzione di Marinetti, Tristan Tzara, l’elogio di d’Annunzio; e si sono affermate anche sul mercato dell’arte.

Sgarbi nella sua introduzione sottolinea il cammino dall’astrattismo al suicidio artistico di un secolo fa, e il ripudio del futurismo considerato da Evola chiassoso ed esibizionista, malato di sensualismo, privo d’interiorità, rivolto a una “grezza esaltazione della vita e dell’istinto”. E Marinetti ricambierà insultandolo come “un pappagallo impagliato” che si crede moderno e invece è un passatista travestito. Nella sua brutalità, Marinetti aveva però colto il cammino di Evola alla riscoperta della Tradizione, che farà svestendosi della sua pittura astratta. Sarà stato uno spettacolo vedere Evola recitare nel giugno del ’21 al Cenacolo d’arte delle Grotte dell’Augusteo il suo poema dadaista, La parola oscura del paesaggio interiore, in una sala arredata da lui stesso, con tavolini dipinti e oggetti d’arte decorativa. È il periodo dandy di Evola, tra la mondanità romana e caprese, in cui c’è chi lo scambia per un personaggio ambiguo: qualcuno come il futurista Mario Carli ironizzerà sulla “signorina Evola” e altri machi fascisti inorridiranno per lo smalto verde sulle unghie lunghe, il monocolo nobiliare e i suoi modi gentili. Non ebbe buona accoglienza a destra neanche nel dopoguerra, tra cattolici, gentiliani, risorgimentali, nazionalisti di bocca grossa e attivisti del neofascismo, e qualcuno lo scansava ritenendolo perfino jettatore. Ma era il fascino occulto che promanava dalla sua figura e dalla sua vita trasgressiva. L’opera di Evola resta avvolta nel mistero, come il suo “incidente” a Vienna che poi lo paralizzò per trent’anni; la sua figura sin da giovane aveva un’aura, un carisma, quel fascino del lontano, “liebe der ferne”, su cui scrisse egli stesso. Quell’amalgama di opera, vita, stile e sprezzatura, lo rendono ancora oggi un autore proibito: è l’imperdonabile per definizione. Del suo pensiero inattuale resta attuale lo scandalo. Vade retro Evola.

Articolo di Marcello Veneziani – La Verità (10 giugno 2022)